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Si è tenuto a Villa Cerami un incontro promosso nell'ambito del dottorato di ricerca in Giurisprudenza
Può la Corte costituzionale (e, più in generale, un organo giurisdizionale) sovrapporre le proprie valutazioni a quelle del legislatore per individuare quale normativa sia più rispondente all’evoluzione della coscienza sociale? E nella ricostruzione della coscienza sociale, è possibile non attenersi a parametri chiari, certi e oggettivamente valutabili? E quali potrebbero essere questi dati certi dai quali desumere, senza scivolare nell’arbitrio delle valutazioni individuali del giudice, i mutamenti della coscienza sociale, che richiederebbero una coerente modifica della legislazione vigente? Sono le questioni affrontate dal prof. Nicolò Zanon, giudice della Corte costituzionale e ordinario di Diritto costituzionale all'Università di Milano, ospite giovedì pomeriggio del dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Catania, dove ha tenuto un seminario dal titolo “Corte costituzionale e coscienza sociale”.
Promosso nell’ambito del dottorato di ricerca in Giurisprudenza, e in particolare del corso in “Corte costituzionale e principi fondamentali” il seminario è stato aperto dagli indirizzi di saluto del rettore Francesco Basile, del direttore del dipartimento Roberto Pennisi e della coordinatrice del dottorato Anna Maria Maugeri. Ad introdurre i lavori è stata la prof.ssa Adriana Ciancio, ordinario di Diritto costituzionale nel dipartimento di Giurisprudenza di Catania, che ha presentato brevemente l’ospite evidenziando quanto i suoi studi siano stati fondamentali per la formazione e le successive ricerche accademiche di molti giuristi. “Da quando il prof. Zanon è giudice della corte costituzionale - ha affermato la prof.ssa Ciancio - si è occupato di numerose tematiche importantissime per la vita pubblica del Paese. Ad esempio è stato tra i relatori della sentenza 35/2017, che ha stabilito la parziale illegittimità della precedente legge elettorale, il cosiddetto Italicum”.
“Questo seminario - ha affermato il prof. Basile - testimonia ancora una volta la qualità dell’offerta didattica del nostro dipartimento di Giurisprudenza, non a caso recentemente inserito nel novero dei dipartimenti di eccellenza del Paese. La tematica odierna è particolarmente interessante anche per i non addetti ai lavori: la coscienza sociale si va modificando molto velocemente, e spesso le nostre leggi non sono al passo con i tempi. Penso, ad esempio, a tematiche come l’eutanasia o la donazione degli organi”.
“La presenza del prof. Zanon rappresenta un’occasione di rilievo per i nostri dottorandi - ha poi sottolineato il prof. Pennisi -, perché ci troviamo davanti a uno dei maggiori giuristi italiani, un eccezionale rappresentante sia della giurisprudenza teorica, sia di quella pratica”. “L’argomento odierno - ha spiegato la prof.ssa Maugeri - si inserisce perfettamente all’interno di un corso interdisciplinare come il nostro dottorato di ricerca, perché attiene a questioni di carattere sia civilistico, sia penalistico”.
“In linea generale – ha esordito Zanon nel corso del suo intervento – bisognerebbe mettersi d’accordo sul concetto di coscienza sociale, la cui definizione contiene un riferimento a qualcosa di oggettivo. Identificare e interpretare la coscienza sociale è il contrario dell’arbitrio individuale di un singolo o di quello di un collegio”. Ecco perché la Consulta si deve muovere con attenzione senza essere preponderante rispetto alle competenze del legislatore. “E’ necessaria – ha infatti continuato il prof. Zanon - una costruzione di una teoria della giustizia costituzionale che sappia tenere in equilibrio le ragioni, da un lato, della superiore razionalità della iurisdictio delle Corti supreme o costituzionali, e, dall’altro, le permanenti, fortissime ragioni democratiche della legislatio, in contesti peraltro segnati da una sempre maggiore complessità e da frequenti interazioni e incontri, ma anche scontri, fra ordinamenti, fonti, Carte, Corti e culture. Contesti che rendono problematica qualunque spensierata identificazione del verso di marcia di quella coscienza sociale che inevitabilmente accompagna le decisioni dei giudici”.
Proprio per spiegare come il giudice costituzionale si possa considerare come un ‘portavoce’ del mutamento della coscienza sociale, a volte rimediando all’immobilismo del legislatore stesso, il prof. Zanon ha citato un caso paradigmatico: la questione dell’obbligatoria attribuzione esclusiva del cognome paterno ai figli, recentemente risolta dalla Corte costituzionale nel senso dell’illegittimità della relativa norma. Dal raffronto con precedenti pronunce del ‘Giudice delle leggi’, mostratosi nel passato restio all’accertamento dell’incostituzionalità di una norma considerata “tradizionale” nell’ordinamento italiano, scaturiscono infatti delicate problematiche sui limiti che incontra la Corte allorché intercetta il merito della discrezionalità legislativa, affidata nel sistema al Parlamento, quale organo immediatamente rappresentativo della collettività popolare e, come tale, “naturale” interprete della coscienza sociale.
Zanon ha ricordato che la prima volta che la Corte fu chiamata ad analizzare questo caso risale al 1988, “quando – ha spiegato il giudice -, la Corte stessa definì il giudizio con un’ordinanza di manifesta inammissibilità rilevando che si trattava di una questione di competenza esclusiva del legislatore. La stessa questione venne riproposta nel 2006: questa volta la Consulta ammise che il sistema di attribuzione del cognome è retaggio di una concezione patriarcale della famiglia, non più coerente con i principi dell’ordinamento e con il valore costituzionale dell’eguaglianza fra uomo e donna. Anche in questo caso però si decise di non intervenire. Nel 2016, la sentenza n. 286 dichiarò invece incostituzionale la legge implicita, mettendo fine ad un’inerzia legislativa inaccettabile, anche alla luce di una sentenza delle Corte europea dei Diritti dell’uomo secondo cui l’impossibilità per i genitori di attribuire al figlio, alla nascita, il cognome materno anziché paterno determina la violazione del divieto di discriminazione sancito dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali”.
“C’è chi vede nella prima decisione della Corte (quella del 2006) un’eccessiva deferenza – ha concluso il giudice -, quasi una forma di timidezza nei confronti del legislatore: si può invece interpretare come un esempio di equilibrio (è giusto attendere l’intervento del legislatore) e, contemporaneamente, di fermezza (l’accoglimento della questione di legittimità costituzionale, dopo la perdurante inerzia del legislatore stesso)”.