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Economia circolare sostenibile. Un modello per guidare la ripartenza

Il prof. Giuseppe Mancini invita a una profonda rivalutazione e investimento sulla formazione e ricerca scientifica su tematiche che possano creare un cittadino migliore e più sostenibile

21 Aprile 2020
Giuseppe Mancini*

Nei giorni passati e si continuerà sempre di più anche nei prossimi, si è letto e sentito, da Facebook fino ai principali mass media, dell’esistenza di una correlazione, data per certa ma forse in maniera troppo semplificata e affrettata, tra lo stato di qualità dell’ambiente (con riferimenti all’effetto serra, alla crisi idrica, alla deforestazione, alla riduzione della biodiversità) e l’aumento delle probabilità di diffusione di batteri e virus alla popolazione animale prima e umana poi.

Con altrettanto importante frequenza si sono registrate – e qui è decisamente più agevole verificare sia empiricamente che scientificamente - correlazioni tra la diffusione dell’infezione da coronavirus e il miglioramento della qualità delle acque interne e marine (tanti ad esempio i servizi sul grande fiume Po'), la riduzione dei rifiuti, la riduzione delle emissioni di inquinanti e delle relative concentrazioni in atmosfera, l’incremento di specie animali normalmente “insolite” all’interno dell’ambiente urbano, come se la natura si riprendesse gradualmente i suoi spazi abusivamente occupati dall’uomo.

Sostenibilità auspicata o improvvisa decrescita da shock?

Questa immagine, queste condizioni, certamente “attraenti”, hanno portato diverse persone, anche autorevoli, ad invocare o auspicare un profondo e ineluttabile cambiamento nel sistema pianeta (a iniziare dalla politica ma forse sarebbe meglio iniziare dal nostro modo di pensare e di comportarci) che, partendo dalla condizione disastrosa in cui il virus ci ha costretto, possa avvicinarci rapidamente a questa “immagine” di maggiore sostenibilità.

Ma quello che osserviamo oggi, a ben vedere, ha poco a che fare con la sostenibilità, a meno che per sostenibilità non si intenda un sistema in cui la razza umana si fermi o scompaia. Inutile infatti negarsi che quanto osserviamo ha a che fare con una decrescita quasi istantanea (e per nulla felice) della maggior parte delle attività; una decrescita verticale, almeno nei paesi più colpiti, causata da uno shock esterno all’economia, molto lontana da qualsiasi orizzonte di sviluppo sostenibile, almeno per la razza umana.

La riduzione dei consumi, la correlata (biunivocamente) riduzione della produzione di beni, l’inevitabile contrazione dei trasporti e la conseguente diminuzione delle emissioni in ambiente non possono essere così strumentalmente associate, in questa tragedia, al concetto di sostenibilità ambientale perché la stessa non può essere mutuata da un’istantanea scomparsa di una specie, sebbene certamente la più impattante, che quell’ambiente stesso oggi compone, ma deve essere piuttosto raggiunta attraverso una modifica graduale, progressiva e altrettanto sostenibile del suo impatto.

Obiettivi da non perdere di vista ma anche priorità

C’è allora qualche lezione che possiamo mettere a profitto da questa traumatica esperienza? Certamente sì. Ma non tanto per l’imminente ripartenza; perché questa - mia opinione personale - dovrà mirare ad obiettivi di sostenibilità secondo una graduatoria di priorità ben più stringenti. Nel voler fare riferimento, per comodità ma anche per metodo, ai ben noti obiettivi per lo sviluppo sostenibile (i famosi 17 SDGs) certamente continuerà a dover essere affrontata prioritariamente l’emergenza della salute pubblica a tutela del bene primario della vita umana, (obiettivo 3 - salute e il benessere) e occorrerà mirare a garantire un lavoro dignitoso nella necessaria crescita economica (obiettivo 8) attraverso innovazione e infrastrutture (obiettivo 9), ma anche (e altrettanto prioritariamente) mirare a ridurre se non sconfiggere la povertà (obiettivo 1) e contenere le disuguaglianze (obiettivo 10).

Questi obiettivi prioritari richiederanno sforzi e risorse enormi da mettere in campo per combattere quanto la crisi del corona virus ha drammaticamente accentuato. Ma proprio per questo, c’è una chiara opportunità di indirizzare queste risorse anche nel senso di valorizzare –contestualmente - altre priorità, dirigendo la rotta d’uscita dall’emergenza attraverso un faro che punti ad un modello economico e di sviluppo più sostenibile del precedente.

Un paese forse troppo dipendente

Fa riflettere come alcune politiche industriali negli ultimi decenni, abbiano favorito l’aumento della dipendenza del nostro Paese dall’importazione di beni e materiali elemento che ad esempio si è manifestato, ancora una volta con elementi di drammaticità, nella sostanziale carenza di sistemi produttivi nazionali di dispositivi di protezione individuale e di respiratori per il cui approvvigionamento ci si è dimostrati troppo dipendenti da altri Paesi. Ma anche qui non bisogna dimenticare, se si vuole parlare di approccio sostenibile, che la dimensione dell’emergenza è stata tale da non lasciare prevedere, a regime, una produzione neanche lontanamente vicina a quella straordinaria che caratterizza l’esigenza di questi giorni. Dunque?

Un parallelismo, tra i tanti che si possono fare, ma più pragmatico e percorribile, e che ci riporta al concetto di economia circolare (ma anche ai limiti della sua applicazione nel nostro paese) può essere evidenziato nella mancanza locale di impianti di trasformazione del materiale, tra quello effettivamente riciclabile, raccolto in maniera differenziata dalla popolazione e alla ridotta presenza, sul territorio nazionale, di impianti di valorizzazione di questi materiali; così come la scarsa applicazione nell’industria nazionale di impianti e strategie di recupero degli scarti o dei residui, a partire ad esempio dai tantissimi rifiuti da costruzione e demolizione. Il tutto senza tralasciare che i valori medi che rappresentano il paese continuano a nascondere una gravissima sperequazione tra quanto efficiente al Nord e quanto assente a Sud. Ne sono esempio eclatante gli impianti per il recupero energetico che vengono osteggiati da interessi personali di piccolo cabotaggio nella più totale miopia (fisiologica o meno) della classe politica meridionale.

L’utopia dell’autoproduzione

Le conseguenze evidenti di tali debolezze strategiche e strutturali sono un ricorso ancora eccessivo alla discarica e soprattutto la già citata dipendenza dall’estero. Quest’ultima ha manifestato tutta la sua problematicità negli ultimi due anni quando la Cina ha chiuso le proprie frontiere alle significative quantità del materiale faticosamente raccolto dagli italiani tramite la RD così mettendo in seria crisi l’intero mercato e quindi la filiera del riciclo nel paese. Ne sono stati indicatori le centinaia di incendi agli impianti di recupero del materiale riciclato soprassaturi di materiale per la mancanza di un reale sbocco di mercato.

Ovviamente la globalizzazione non deve essere asetticamente (come fanno in tanti) messa sul banco degli imputati dimenticandosi degli enormi vantaggi sulla qualità della vita e sul benessere che certamente sono cresciuti in questi anni a livello medio mondiale. La risposta agli immancabili problemi indotti, l’altra faccia della medaglia di un mercato globale, non può però essere la chiusura dei nostri confini e l’utopia dell’autoproduzione ma piuttosto il puntare, stavolta con decisione, ad una crescita equilibrata e specialistica nello stesso mercato globale che faccia delle numerose qualità del popolo italiano, prime tra tutte la capacità di immaginare e inventare senza rinunciare al gusto del bello, gli elementi trainanti di un vero e nuovo approccio strategico.

Gli insegnamenti della pandemia per migliorare il modello

Bisogna allora dare prospettiva ad un modello economico che punti all’innovazione, a partire da quella tecnologica, con politiche adeguate di supporto alla ripresa del Paese, indirizzando i piani di investimento verso una concreta transizione che punti a modelli di produzione e di consumo basati su approvvigionamento ed utilizzo sostenibile delle risorse ma anche degli scarti, lungo la strada della decarbonizzazione e della circolarità, senza mai trascurare gli impatti sul sociale.

La dura frenata impartita dalla pandemia può permettere oggi a molte più persone di riconsiderare coscientemente il rapporto tra uomo e consumi, a partire, ad esempio, da una spesa ben più consapevole e ragionata, dove il superfluo, specie quello alimentare, non si trasformi in un costo inutile e dannoso prima (si pensi allo spreco enorme di risorse quando si butta un vegetale “andato a male”) e in rifiuto complesso da gestire dopo. Prevenire è meglio che curare anche in questo campo.

Questo periodo può anche darci indicazioni sulla parziale inutilità dello spostamento di alcune (molte) persone, laddove invece possano più sostenibilmente viaggiare le informazioni che il loro lavoro produce, anche lavorando da una casa che in questo senso può essere ripensata attraverso il potenziamento della connessione, l’utilizzo di controlli elettronici delle apparecchiature in remoto e magari il suo comfort, la sua bellezza e la sua maggiore sostenibilità energetica. Quante riunioni telematiche sono state fatte in questi mesi senza prendere aerei, treni, autobus metropolitane, ascensori o semplicemente la propria macchina?

Quale Economia Circolare? ….il ruolo della scienza

Ma occorre fare attenzione affinché questa auspicabile “azione” di indirizzo, non venga guidata da interessi di parte, spesso celati dietro una troppo effimera bandiera ecologista, che proclamano solo “certe soluzioni”, avversando tutte le altre. Se una cosa abbiamo imparato in questi giorni è l’importanza della scienza e la sua forza che, pur nella pluralità delle vedute, ha dato comunque un messaggio statisticamente univoco e finalmente vigoroso, seguito anche dai più spavaldi e autoreferenziali leader del pianeta, spauriti ed impotenti di fronte a qualcosa di così grande e “naturale” da gestire anche per loro.

E allora occorre forse un nuovo concetto di economia circolare che superi quello che la sta sempre più limitando a ruolo di slogan abusato dai più. Occorre un’economia circolare so-ste-ni-bi-le. Un’economia circolare non basata su facili proclami di persone che la rappresentano attraverso una visione parziale, spesso motivata da specifici e faziosi interessi di mercato. Ma occorre piuttosto restituire alla scienza e alla tecnica, quella che fa previsioni fondate perché verificate e verificabili, il compito di guidare la mano della politica perché la stessa si possa assumere delle responsabilità consapevoli nell’azione di indirizzo.

E sia sempre la scienza -e non i social media indistinti - ad aiutare l’opinione pubblica a far chiarezza sui temi veri che la riguardano, presentando tutte le sfaccettature, non solo quelle che tranquillizzano, narcotizzandolo, il senso critico e che fanno spesso dare per scontate leggende folkloristiche senza mai verificarne i fatti. Ma i fatti possono essere verificati. La scienza può fare dei confronti obiettivi tra i prodotti e i processi prendendo in considerazione non solo le quantità di materiali necessari per produrre qualcosa ma anche quanta energia, acqua, suolo saranno consumati nell’intero ciclo di vita del prodotto o del processo pervenendo all’impronta ecologia di quel prodotto e di quel processo.

E c’è poi l’aspetto della salute. Quanti di quelli che hanno applaudito fino alla scorsa estate alle spiagge plastic-free poggerebbero serenamente, nella prossima, le proprie labbra su un bicchiere “appena lavato” ad una magnifica serata ad un lido con centinaia di persone (sperando si possa giungere a questa condizione) e non preferirebbero invece utilizzare una tanto vituperata cannuccia o un bicchiere di plastica – attenzione- da indirizzare subito dopo ad una corretta raccolta differenziata magari sostenuta da una gestione del lido che preveda una ragionevole cauzione?

Tutti oggi odiano la plastica, la disprezzano, è un derivato dal cattivissimo petrolio, siamo sommersi da rifiuti di plastica e se non facciamo nulla entro il 2050 ci sarà più plastica che pesci nell’oceano. Tutto vero. Ma il problema è della plastica o della gestione post consumo che permettiamo ancora di fare della stessa? Siamo sicuri che un imballaggio in plastica sia così insostenibile quando preserva dalla degradazione un cibo evitandone o riducendone la necessità di smaltimento permettendo quindi di preservare le tantissime risorse impegnate nel produrlo? o quando riduce il peso del contenuto da trasportare e quindi le relative emissioni da trasporto? O quando ci protegge come oggi naso occhi e e mani garantendo la nostra preziosa igiene? Ancora una volta la risposta c’è, basta sapere a chi chiederla ma soprattutto fare in modo che la stessa venga diffusa attraverso strumenti certi e verificabili, per formare una cultura sana, improntata ad una vera sostenibilità.

Diventeremo migliori?

Ed allora un passo altrettanto necessario a produrre questa auspicata correzione di rotta non può non prevedere una profonda rivalutazione e uno straordinario investimento sulla formazione e la ricerca scientifica su tematiche che possano creare un cittadino migliore e più sostenibile perché consapevole.

Molti dicono che dopo questa pandemia niente sarà più come prima. Io non ne sono convinto. Come dopo una malattia il tempo pian piano ci fa dimenticare e se non facciamo nulla di significativo torneremo esattamente sullo stesso insostenibile cammino. Ma forse oggi siamo un poco più attenti ed allora non è il caso di sfruttare al massimo questa anomala condizione e di provarci a iniziare a rivedere il nostro comportamento? Lo possono e devono fare i politici certo. Ma lo possiamo, se lo vogliamo, iniziare a fare pima noi. ….Vero?

Giuseppe Mancini

*Giuseppe Mancini del del Dipartimento di Ingegneria elettrica elettronica e informatica dell'Università di Catania, docente di Chemical Plants nel corso di laurea in Chemical Engineering for Industrial Sustainability 

 

 

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