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Intervento del prof. Attilio Scuderi sui temi del contagio e della contaminazione nella letteratura
Con buona pace di coloro i quali la praticano poco, per mancanza di tempo o perché territorio desueto e “improduttivo”, quella forma di espressione culturale che chiamiamo sinteticamente Letteratura – che copre e comprende esperienze molto diverse nel tempo e nello spazio – è un potentissimo reagente, una formidabile cartina di tornasole; le forme narrative (in prosa e in versi, teatrali e cinematografiche) sono capaci di rendere visibile, di fare emergere per impressioni successive sulla pellicola della nostra coscienza quello che collettivamente reprimiamo e ciò che individualmente rimuoviamo, i nostri desideri più profondi e le nostre paure più pervicaci e vertiginose.
È dunque da qui che dobbiamo partire per capire il peso che abbia avuto, stia avendo e avrà, nella nostra esperienza di specie, uno dei temi di lunga durata dell’immaginario umano: l’esplodere e dilagare del contagio e della contaminazione, e con esso la costellazione tematica cui appartiene, quella della catastrofe e della distruzione.
Da Tucidide a Saramago
Dalla descrizione della peste (in realtà una tremenda febbre tifoidea) che colpisce Atene nel racconto di Tucidide nella Guerra del Peloponneso (V sec. a. C, libro II) e poi nel De rerum natura di Lucrezio (I sec. a. C., libro VI, v. 1138-1286); dalla rappresentazione della Peste Nera che impazza a Firenze nel 1348 - “la mortifera pestilenza nelle parti orientali cominciata(…) e che verso l’Occidente miserabilmente s’era ampliata ” - nell’Introduzione alla Prima giornata del Decameron di Boccaccio (1353 circa), al Diario dell’anno della peste (Journal of the Plague Year, 1722) di Daniel Defoe, in cui si narra in un antesignano romanzo-cronaca o non fiction novel della peste bubbonica che decimò Londra nel 1665; dal capitolo manzoniano (Promessi sposi, XXXI) sulla peste del 1630, metafora del dominio straniero e ancor più della malattia rivoluzionaria e giacobina, alla Peste (1947) di Albert Camus, allegoria del contagio autoritario e nazista (allegoria ripresa in uno dei più bei romanzi degli ultimi anni, Cecità di Josè Saramago, del 1995): la raffigurazione del contagio si presta – anche solo a scorrere questo breve e più noto canone delle opere di contaminazione, a un doppio registro.
Tra cronaca, storia e metafora
Da un lato infatti prevale la rappresentazione realistica e storica, la cronaca letteraria delle pandemie e dei loro sconvolgenti effetti sul tessuto della pòlis: crisi dell’autorità civile; emersione di forme autoritario-concentrazionarie; procedure mediche, sociali e militari di contenimento e gestione dell’ordine pubblico; forme di sgretolamento della solidarietà comunitaria, familiare ed affettiva ed insieme esempi di resistenza e difesa dei valori di umana convivenza (ben rappresentati, simbolicamente e per prelievo, dall’“allegra brigata” dei giovani “novellatori” del Decameron).
D’altro canto appare subito la potenza e la potenzialità di un tema che è metafora della nostra duplice e ibrida condizione di specie, biologica e culturale, animale e associata, delle sue contraddizioni, delle sue angosce e delle sue paure: e dunque la possibilità di utilizzare questo macro-tema anche in forma mediata e simbolica, per narrare non solo la pandemia in sé ma, più sottilmente, l’ingresso nella sfera ordinata della nostra sicurezza quotidiana di ciò che è estraneo, alieno, di quel nemico invisibile che disgrega il nostro ordine morale.
Catarsi e capovolgimento
Questa derivazione, fecondissima, della tematica del contagio ha anch’essa origine nella letteratura antica; nelle Baccanti (407 a. C. circa) Euripide racconta come il dilagare di un vero e proprio morbo, nella città di Tebe, l’avvento di Dioniso, il dio straniero dell’estasi, del vino, del rito catartico teatrale ma anche della rottura e del capovolgimento delle gerarchie consolidate: cittadino/ immigrato; uomo/ donna; ricco/ povero; razionalità/ emozione. È l’inizio di un tema nel tema, quello dell’ospite inquietante, “mostruoso” e dionisiaco, che anima tanta letteratura anche moderna (gotica e romantica, a partire dall’imitatissimo Frankestein di Mary Shelley, 1818) fino a formidabili derivazioni teatrali e cinematografiche degli ultimi anni: dallo scandaloso Teorema di Pier Paolo Pasolini (1968, insieme abbozzo teatrale, romanzo e infine film, in un magistrale passaggio transmediatico) al bellissimo Sei gradi di separazione (prima commedia teatrale di John Guare, del 1990; poi felice trasposizione cinematografica di Fred Schepisi nel 1993).
In posti come Blacksmith
Prendiamo adesso, per prelievo, in questo ricchissimo corpus di opere e generi, media e forme narrative, autrici e autori, un esempio recente, Rumore bianco dell’autore americano Don DeLillo (White Noise, 1985).
Ambientato nella cittadina fittizia di Blacksmith, nel cuore dell’America bianca e puritana del Midwest, il romanzo racconta un anno di vita di Jack Gladney, professore universitario, docente di storia e direttore del dipartimento di Studi Hitleriani, e della sua eccentrica famiglia allargata.
Jack, Babette e i loro figli conducono la “normale” vita di una abbiente famiglia borghese occidentale avvolta nell’alienazione consumistica e mediatica, cullandosi tra le onde e le radiazioni di un sistema di protesi informatiche e tecnologiche, quando un inatteso “evento tossico aereo” ne sconvolge la vita: un incidente tra due treni sprigiona una nube altamente tossica spingendola verso il tranquillo e fin lì confortante abitato residenziale. La prima reazione di Jack è di istintiva rimozione dinanzi alle prime paure della moglie (“Non succederà assolutamente niente (…). Le disgrazie sono cose che succedono alla povera gente che vive nelle zone esposte a rischio (…), cose che in posti come Blacksmith non succedono”). Ma la realtà è ben più forte della nostra capacità, ricorrente, di rimuoverla; e la famiglia Gladney si trova a lasciare la sua comoda casa e sfollare prima in macchina e poi in un “promiscuo” ricovero della protezione civile; tra attese angosciose e allarmanti fake news, paranoie collettive e accuse di cospirazione, la realtà mostra il suo lato nascosto, la sua concreta irrealtà:
L’enorme massa scura della nube tossica si muoveva come la nave dei morti di una leggenda nordica, scortata nella notte da creature con armatura e ali a spirale. Non sapevamo bene come reagire. Era una cosa tremenda da vedere (…). Il nostro timore era accompagnato da un senso di reverenza che confinava con il religioso (…). Era una morte costruita in laboratorio, definita e misurabile, ma in quel momento ci pensavamo in un modo semplice e primitivo (…). La nostra impotenza non appariva compatibile con l’idea di un evento provocato dall’uomo (…). Piccole folle si raccolsero attorno a certi individui. Le fonti delle notizie e delle voci (…). Da quei fitti capannelli si irradiavano il vero, il falso e altri tipi di notizie. Si diceva che il mattino seguente ci sarebbe stato subito consentito di tornare a casa; che il governo era impegnato a insabbiare lo scandalo; che un elicottero era penetrato nella nube tossica senza più ricomparire; che dal New Mexico erano arrivati i cani (…). Le osservazioni aleggiavano in uno stato di perenne flottazione. Non una sola cosa era più o meno plausibile di qualsiasi altra. Poiché eravamo stati strappati alla realtà, eravamo anche dispensati dal bisogno di distinguere (…) Più grande è il progresso scientifico, più primitiva la paura.
L’ospite inatteso e il lungo addestramento
Permeato da un’intelligenza e da un’ironia alle quali poche citazioni non possono rendere giustizia, il romanzo di DeLillo racconta la fobia di un contagio possibile e sempre rinviato, di un ospite perturbante, oscuro e inatteso ma da noi oscuramente evocato, e di una normalità che tarda a ritornare, tra squadre di tragicomici decontaminatori, ipotesi di apocalisse e forme di abbrutimento e di imprevedibile epifania nel tempo sospeso dell’attesa e del confino.
È il racconto di una società consumistica in cui la ricchezza è divenuta fragilità emotiva e solitudine sociale, in cui la paura della morte è pane quotidiano sedato da massicci psicofarmaci, e in cui strappati alla realtà, immersi nel virtuale, si è disposti ormai a seguire qualsiasi sirena o miraggio. Il romanzo mostra così – profeticamente, come tutti i classici destinati a essere contemporanei del futuro – quanto il nostro immaginario, nella vicenda dell’antropocene hollywoodiano e occidentale, sia stato abituato se non assuefatto a narrazioni della catastrofe, tanto da faticare a distinguere realtà e finzioni, da non riuscire ad emergere dalle sue visioni fittizie e prendere in mano il proprio destino.
Nello specchio di Rumore bianco, un secolo di paure borghesi, di invasioni di ultracorpi (si pensi al celebre The Invasion of the Body Snatchers, 1956, ed ai molti remake che ne sono stati tratti) e minacce di armate aliene, contagi pandemici e devastanti, narrazioni apocalittiche di una fine del mondo sempre rinviata dall’happy ending di una falsa distopia, si mostra come il lungo addestramento, l’“ingaggio” militare del nostro immaginario politico e culturale: un immaginario profondamente consapevole dei disastri compiuti dalle culture dominanti contro il pianeta e il suo ambiente e dunque in cerca di una pace possibile; una pace necessaria, che il colossal di turno rischia però, volta per volta, di rinviare e rendere solo e sempre più distante.
Emergenza Covid / Il contributo dell'Università di Catania
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